L'altrui scrittura
La lingua poetica come invenzione e desiderio
Pensanti le emozioni non mie
rigogliosi gioghi di densità assorbibili.
Reclamare carta da tampone
non è del tutto vano o fuori luogo:
la traccia di ciò che macchia
al contatto si duplica e ineguale si espande.
Così i tuoi palpiti, uomo che non sei me
potrebbero essere assimilati
dal cuore che possiedo, compresi
usati per capirti.
Nel bene come nel male
sulla mia pelle
l'altrui scrittura.
Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle con un dito.
Così Gabriel Garcìa Marquèz scrive nella prima pagina di Cent'anni di solitudine. Il mondo recente delle sue parole è quello di Macondo, luogo arcaico dello spirito e della materia, terra appena fatta, dunque terra ancora odorosa di vergini spore di poesia.
In questo dito che indica l'innominato, ho sempre ravvisato il gesto desiderante della scrittura. È il dito di un bambino ancora muto, un bambino pronto a stupirsi. Non sa cosa dire quel dito, però sa vedere e desiderare di sapere. Quel dito prova un'emozione indicibile, invoca un suono sconosciuto che produce al corpo un palpito: la parola, inconsapevole di significato, dice di sé.
Immaginiamo di non sapere cosa sia un fiore. Il nostro dito di Macondo indica e cattura un'immagine di bellezza, la lingua si sforza di rappresentare una visione attingendo nel plasma della fantasia. Le sillabe si sforzano di descrivere ciò che gli occhi della mente elaborano, il dito suggerisce alla mano di toccare quella "cosa ignota" per capirla attraverso i sensi. Si scoprirà allora dell'oggetto la delicatezza, il colore, il profumo, la fragilità, la geometria lieve della forma: si percepirà più o meno consapevolmente la sua sostanza poetica. Ecco che allora il muto dito di Macondo impara una sua parola, la vox sperimenta una volontà di significare. Proviamo a trasmettere nei versi ciò che la lingua del fiore suggerisce:
un filo di nulla
per il vento.
Respira l'aria
del respiro che ascolta
l'estasi composta
di una schiusa fragranza.
La poesia appartiene ad un mondo primordiale ancora generoso di bellezza. La poesia vive nelle immagini per comporsi nel gioco delle metafore, delle analogie, e della musica. La poesia nasce nel momento in cui la lingua che la costruisce si sforza di conoscere il taciuto attraverso un atto d'amore. Lo annota Giorgio Agamben citando Agostino: all'intenzione di significare senza significato corrisponde, non la comprensione logica, ma il desiderio di sapere in quanto amore di conoscenza.
Dunque dalla percezione dell'immagine esteriore, la creazione di un'interiore lingua poetica soggettiva ed al contempo universale. In questa lingua delle immagini e dei sentimenti possono entrarci tutte le lingue del mondo. Anche il nostro siciliano, parlato e passato da bocca in bocca per essere magma vivo d'espressione. Il sole basso nel cielo suggerirà alla lingua del poeta una personale figura di tramonto nella quale il sole si trasforma in bilancia di pensieri: u suli vasciu ni lu cielu pisa i pinzeri di lu jornu.
Altra immagine: la notte porta a chiudere gli occhi. Notte come riposo meritato o anche estremo: ni lu scuru di la notti niura, l'occhi niuri si fanu e s'arrizzettanu.
In ogni dialetto nasce e si forma una lingua poetica che dilata il conosciuto. La poesia è libertà sintattica, sortilegio ed enigma dell'emozione. Nel nostro siciliano ogni parola sa essere archetipo di coscienza collettiva. Il siciliano costruisce e modella la pasta dei propri suoni ritrovando il tempo mitico dell'epica. In quel tempo allora un Dio dalle mani verdi comandò al fiore appena fatto di fioriore:
pigghiau na cimedda di cuttuni
Sciusciannu cu lu ciatu criaturi
nu ciuri ciuratu fici n'ciurari.
Sensi e fonemi nuovi per articolare attraverso l'invenzione fantastica la lingua della poesia.
Un sasso cade nell'acqua ferma di un lago. Cerchi concentrici si susseguono e lenti tornano a tacere. Un messaggio segreto si propaga liquido sotto le ciglia infinite del cielo: un lieve splasch, perfetto ed elegante.
Il suono nasce prima della parola poetica dividendo con essa un rapporto di reciproco e complice incanto: un desiderio di taciuta appartenenza.
Sull'uso delle onomatopee Giovanni Pascoli costruisce la poesia dei suoi ascolti. Le onomatopee pascoliane non sono semplici riproduzioni di suoni naturali. Citiamo ancora Giorgio Agamben: esse rappresentano l'effetto più profondo presente nella scrittura. «L'onomatopea è l'esperienza del cogliere la lingua nell'istante in cui riaffonda, morendo, nella voce e la voce, emergendo dal mero suono, trapassa nel significato». Momento estremo questa dinamica della poesia pascoliana. La sua lingua nasce per morire e morendo ritorna in suono per essere di nuovo presente oltre e dentro ogni apparenza.
Il siciliano è lingua di onomatopee ed omoteleuti. È lingua di sintesi perché le parole del nostro dialetto, come asseriva Verga, sono parole che quagghiano. La sintesi rappresenta il fiat della creazione, una creazione che accumula sedimenti idiomatici giunti da tempi lontani. La poesia in dialetto diventa poesia di ere glossaliche trascorse e sovrapposte.
Dal giovanile studio sulla parlata viva della lingua di Girgenti, Luigi Pirandello capì come inventare una realtà di poesia disposta a farsi teatro. La voce di Liolà è il canto terra, il suo dito siciliano chiama a raccolta il mondo della natura. È un dito magico e magnetico che dice nella parola la verità del semplice e dell'essenziale. Segue a tale dito, il gesto necessario alla visione, organizzato in uno spazio disposto a costruire il desiderio di una forma che possa valere un'esistenza.
La poesia come anima dell'umano. Sta solo all'uomo riconoscerla.
L'Animale Vecchio è l'animale che giunto alla fine della propria vita diventa simile all'uomo. Stanca la bestia perde il vigore, il carattere della specie per avvicinarsi ad un modello di debolezza universale. Ecco allora che l'animale, qualunque esso sia, si prova in certe azioni umane, stati mentali inconsapevoli, comuni pose affaticate. Poi tra queste, cosa tra cosa, il languore… La vita si addormenta dolce senza spiro.
L'animale che sta per morire si fa uomo. L'uomo che sente di finire, sfinisce facendosi animale, trova una tana dove deporre i propri umori corporali, le secrezioni di emozioni già lontanissime.
Nell'Animale Vecchio, la poesia del gesto della bestia libera, poesia purissima ed umanissima in un tempo il nostro, in cui l'uomo ha perduto la grazia del tocco lieve e la sublime verità del verbo creatore e creatura. L'eleganza dell'identità vera.
Al muro della stazione
questo orologio bianco
lancette di carta
colorate e stinte
prodighe al soffio
del vento sulle nuvole
in viaggio nelle ore
e nei giorni
caduche e sottili
tra le dita della morte
prossima a recidere
minuti pezzetti
estreme briciole
di un tempo vuoto
coriandoli ° °° ° ° ° ° ° ° °
al carnevale della vita.
da Lo zingaro suona la tromba
Il sole di questa domenica vuota
si riempie di canzoni passate
e il cuore randagio che canta
se gonfia le gote di vento
sulla pelle gitana della mia gente.
Porto un figlio con me che non è mio
perché suo padre è una spiga di grano.
Lui è nato così: è spuntato per caso
accanto ad un papavero rosso.
Lo porto con me perché ha le mani per cogliere le nuvole
ed io ho bisogno di quelle mani
per chiedere ai giorni la musica dell'allegria.
Passo la domenica da questa strada
e c'è chi ascolta come suono la tromba.
Penso sia un uomo libero e prigioniero di un sogno.
Passo di qui perché so cosa vuol dire sognare
senza che il sogno aspetti la luna e la notte.
Grazie amico, grazie…
paga le mie note al bambino
lui ha i capelli di grano e conosce la verità.
La mia tromba squilla nella luce oltre il silenzio della strada.
Vado e mi segue un figlio prestato da una campagna di periferia.
Lui sta con me per suonare il mio sogno venduto
al prezzo di due monete da mettere sugli occhi.
Quando la madre fu madre
Prima d'essere madre
la madre fu una bambina
con le trecce chiuse da fiocchi
e le calze corte alle caviglie
sulle piccole scarpe eleganti.
Prima d'essere madre
la madre fu una ragazza
con un vestito leggero sui fianchi
fatto di cotone rosa e di scarlatto
per occhi innamorati della luna.
Prima d'essere madre
la madre fu una sposa
ed ebbe una ghirlanda di zagara
come corona di nozze
denti di confetto
per baci di vaniglia.
Poi la madre fu madre:
il ventre dolce si fece di farina
e il bambino nato pane santo e sano.
Quando la madre fu madre
il suo seno inventò cirri di manna
e inondò di bianco il mondo.
L'isola marina
Stasera è festa sull'isola marina
perché dai campi di grano
sono giunte in corsa le ragazze
con le sottane trapunte
d'erba e margherite.
Sono ragazze brune
con la pelle scrutata dal sole
la gioia tra le narici
golose d'aria salmastra.
L'isola conosce
le ragazze che tengono in ciondolo vecchie fiabe
perché l'isola ha il mare che le racconta
su pagine orlate di sabbia.
L'isola ha pure un delfino e un pesce con la spada.
Nessuno li vede perché sono d'argento
loro confabulano con il liquido brillare della luna.
La festa dell'isola
suona di musica gialla di limoni
è profumata d'antica solitudine terrestre
e di silenzi dati in riguardo
agli abbracci delle creature amanti.